2_Definizione di edicola votiva

Definizione di edicola votiva

In Romagna vengono più comunemente definite pilastrini per la loro forma più diffusa.

 

Per questi manufatti manca una definizione precisa, ma è possibile individuare una categoria di monumenti di ispirazione devota, voluti e posti in essere dalla gente comune, che si è soliti designare con termini di derivazione di volta in volta popolare/dialettale oppure colta, che variano da zona a zona e nell’arco del tempo. Tra questi termini è bene ricordare quelli più diffusi e frequenti: capitello, cappella, celletta, cippo, edicola, madonnina, maestà, nicchia, pilastrino, sacello, tabernacolo, targa, verginina.[1] Alcune denominazioni sono tipiche di aree specifiche del nostro paese: pinture o pinturette nelle Marche (a identificarne il carattere di immagine dipinta), marginette in area pisana (con uno slittamento di significato da immagine a margine, a indicarne la collocazione), cunnicelle a Bronte.

Il termine capitello è utilizzato con riferimento alla parola latina caput, cioè “capo”, “estremità”, “termine”, ed ha cioè diretta associazione con il luogo in cui i monumenti di questo tipo vengono edificati[2]; il termine è tuttora il più usato in Veneto (capitei).  Altri termini come madonnina, verginina, targa, fanno riferimento diretto all’immagine devozionale stessa, in relazione al tema iconografico o alla configurazione dell’oggetto. Pilastrino e cippo rinviano alla forma architettonica del monumento, mentre nel caso di nicchia (cunnicella in siciliano) si evidenzia lo spazio che ospita l’immagine devozionale; questa può far parte di un manufatto costruito all'uopo ma più comunemente è incavata nella parete di un edificio rivolta all'esterno. Il termine tabernacolo, il cui significato principale rimanda ad uno specifico arredo sacro atto a contenere la pisside e il Santissimo Sacramento[3], è di derivazione evidentemente colta, ma la somiglianza formale di alcune tabernacoli con gli oggetti studiati ha indotto a parlare di tabernacolo anche in riferimento ai nostri monumenti di devozione, usando il termine come sinonimo di edicola. Appunto, l’edicola, nel significato traslato si configura come un piccolo tempio o nicchia inquadrante un’immagine, dalla parola latina aedicula, diminutivo di aedes (“casa” o “tempio”), adibita quindi in origine ad ospitare una statua con funzione cultuale o sepolcrale[4]. Dal mondo classico deriva anche il termine celletta, che riprende la parola cella, parte interna del tempio, dove era custodita la statua della divinità. Così anche sacello (sacellum) indica un piccolo luogo chiuso consacrato, una piccola cappella o oratorio. Quanto al termine maestà, deriva dal linguaggio colto in riferimento all’impostazione frontale della figura rappresentata, che richiama un modello dell’arte imperiale dall’Imperatore in trono in maiestate[5].

Quanto detto sulla terminologia rende più semplice un’identificazione d’insieme sulla base di classificazioni strutturali e formali; per quanto riguarda invece le motivazioni propriamente ideologico-religiose, i nostri pilastrini si caratterizzano come espressione di devozione semplice e destinata a pubblica fruizione, che si manifesta nella collocazione del manufatto.

Ritroviamo questi segni del paesaggio sul ciglio delle strade, negli incroci, volti al pubblico passaggio in cortili privati, più raramente in campi coltivati. La locazione dei pilastrini non è ovviamente causale e, benché il loro posizionamento attuale non possa considerarsene conseguenza diretta, si riallaccia a tradizioni molto più antiche del cristianesimo, che si espressero in monumenti dalle analogie formali e sostanziali con le nostre edicole. Già i romani usavano collocare all’incrocio tra cardo e decumano il compitum, un cippo, quale segno identificativo del confine di proprietà: col passare del tempo questo simbolo si coprì di un significato religioso. Le zone di confine erano infatti sguarnite dalla protezione dei lari, le divinità familiari, e come tali erano vulnerabili all’attacco di entità malevole, le più temute delle quali erano gli spiriti dei trapassati. La religione romana era fondata su un reciproco rispetto dei limiti e delle regole stabilite fra umano  e divino a cui corrispondeva la giusta protezione dei numina.[6] I punti di confine, rappresentando concretamente il luogo di passaggio tra mondo terreno e “altro”, erano perciò di fondamentale importanza: i contadini usavano appendere sugli alberi dei crocicchi o confinali delle maschere ornate di corna con valore apotropaico, e i crocicchi stessi diventarono appannaggio della protezione di specifici lares, i lares compitales, oggetto di offerte votive.

Già nel periodo della tarda Repubblica questa usanza votiva cadde in disuso, ma il concetto di confine come area di compenetrazione tra mondo dei vivi e mondo dei morti rimase ben vivo nella mentalità della gente comune: non per niente una figura negativa come Ecate veniva definita “signora dei crocicchi”, e durante il periodo in cui si credette alle opere nefande della stregoneria si ritenevano gli incroci luoghi frequentati da streghe e maghi. Nel medioevo sopravvivevano infatti nelle campagne europee una serie di rituali cultuali precristiani che la chiesa non si curava più di tanto di combattere, considerandoli inizialmente innocui e gradualmente superabili. Così, e come si vedrà fino al Concilio di Trento, le pratiche divinatorie, i riti agrari di fertilità e fecondità, gli interventi magico-terapeutici, non scomparvero. Vennero in qualche modo cristianizzati attraverso una sorta di sovrapposizione, che li spinse progressivamente ai margini della legalità, senza però che si potesse impedire la sopravvivenza di frange di paganesimo a volte così intriso di simboli e formule cristiane da generare forme di religiosità popolare particolarissime. Anche nella tradizione romagnola troviamo una serie di documenti che attestano la sopravvivenza di pratiche magico-stregoniche rurali perpetuate nei crocicchi,[7] descrizioni che riflettono una visione della morte e delle antiche usanze tutt’altro che spaventosa, resa tale solo durante l’età moderna anche per le pressioni culturali della Chiesa ufficiale, che fecero via via svanire il ricordo delle motivazioni originarie dei riti stessi.

Non solo i crocicchi ma anche i boschi erano fulcro del connubio tra nuovi e antichi culti: nido delle paure ancestrali perché terreno del diverso;[8] ai rami dei loro alberi si appendevano immagini sacre, traslando la devozione dal legno stesso all’icona, che poteva col tempo trovare altra collocazione in un’edicola o tempietto. Variate sono le raffigurazioni nella religiosità popolare romagnola di apparizioni mariane tra le fronde di un albero, basti pensare alla Madonna del Bosco di Alfonsine, alla Madonna dell’Albero a Ravenna, a quella del Piratello a Imola ecc. Forse ancor più dei suoi corrispettivi più compiutamente architettonici, i tabernacoli arborei sono espressione non solo dell’immediata religiosità contadina, ma anche di un rapporto tra uomo e ambiente, sentito e personale.  Era un rapporto vissuto spesso in maniera tragica a causa della dipendenza dagli agenti atmosferici e degli sconvolgimenti provocati da intemperie e terremoti.  Bisogno di protezione dagli agenti esterni che determinavano la vita contadina e preghiera genericamente intesa compiutamente cristiana si fondono in questi luoghi di confine.

La presenza diffusa di  manufatti con immagini sacre si ha nella nostra regione a partire dal Quattrocento[9], ma in tutto il Paese assume dimensioni ben più ampie dopo la Controriforma, per l'impulso dato dalle gerarchie ecclesiastiche alla venerazione delle immagini  di religiosità popolare  in funzione antiprotestante, con una accentuazione del culto mariano, come vedremo, e una diversificazione a seconda dei luoghi, ufficializzando tradizioni di culti locali  con le relative immagini che si diffusero grazie alla riproduzione ceramica. Dal Cinquecento in poi c'è inoltre una fioritura degli Oratori, piccole chiese costruite nelle campagne dalle Confraternite, che sorgono spesso nel luogo dove sorgeva precedentemente un tabernacolo con una immagine ritenuta miracolosa, collocata poi all'interno della chiesetta.

Si sviluppano inoltre dei precisi cliché iconografici per i santi: ogni santo è rappresentato con caratteristiche e attribuzioni particolari, facilmente riconoscibili dai credenti, ognuno deputato ad una particolare funzione. L'invocazione alla protezione della Madonna e dei santi ebbe il culmine in occasione delle pestilenze del Seicento; ne seguì una venerazione delle immagini che da popolare divenne ufficiale: si pensi al culto della Madonna delle Grazie di Faenza, la cui effige fu rappresentata su moltissime case della città e si diffuse ben oltre i suoi confini. Sbiadita nella cultura ufficiale dell'età contemporanea la fede nella capacità taumaturgiche dell'invocazione religiosa e attenuate molte paure ancestrali grazie al progresso scientifico, non si è tuttavia assistito al cessare della costruzione di edicole, poiché quasi tutti i pilastrini che vediamo attualmente sono di origine otto o novecentesca.

Sembra pertanto manifestarsi una generica disposizione d’animo che induce a sacralizzare i luoghi. L’immagine sacra, collocata in un crocicchio, un bivio, un guado, un crinale, proietta nella topografia del paesaggio naturale e architettonico il luogo di passaggio tra aree diverse, ed ha valore di presidio, data dalle implicazioni conflittuali che tali passaggi comportano sul piano simbolico[10]. Questo scopo di protezione è quel che resta dell’antico significato delle edicole. E’ un senso religioso che nelle campagne, e la ricerca sul territorio ha dato modo di attestarlo, risulta più vivo di quanto l’apparenza non indichi. Defilate anche visivamente dai mutamenti del vivere moderno, queste edicole risultano spesso invisibili agli occhi del passante ignaro del loro significato. Eppure nelle campagne si riscontra un perdurare di questa religiosità semplice che ancora si esprime nelle processioni del mese di maggio e nella committenza di targhe devozionali ceramiche. E’ una forma di religiosità popolare che ha sicuramente in larga parte risentito del progresso e degli sconvolgimenti oltre che paesaggistici anche sociali e del proprio sentire religioso, ma che non ha tuttavia del tutto perso quelle connotazioni originarie di legame col proprio vissuto quotidiano, col proprio territorio e con le proprie tradizioni, che questa ricerca si propone di esprimere.

[1]  E. morigi, Le edicole devozionali. La terminologia, le forme, la fruizione, in (a cura di) E.Morigi, B.Venturi , Edicole devozionali del territorio ravennate. Comuni di Alfonsine, Bagnacavallo, Ravenna e Russi, Longo Editore, Ravenna 2004

[2] G.Franceschetto, I capitelli di Cittadella e Camposanpiero. Indagini sul sacro nell’alto padovano, Roma, 1972 , cit. in M.Morigi, Le edicole devozionali...cit.,p.13

[3] C.Pisoni , “Tabernacolo”, in Enciclopedia dell’arte medievale, a cura di A.M.Romanini, vol. XI (2000), coll.55-57. Per i romani il tabernaculum era la tenda augurale, il luogo dove si conservavano gli auspici. Per gli ebrei, il Tabernacolo era la tenda dove, durante il lungo viaggio dall'Egitto alla terra Promessa, si conservavano le tavole della legge, il candelabro e gli arredi sacri. In epoca cristiana, a partire dal IV Concilio Lateranense del 1215, con il nome tabernacolo o ciborio si indicò il luogo ove si conservava il SS. Sacramento, e in seguito, per estensione, si cominciò a definire tabernacolo qualsiasi struttura, all'interno o all'esterno delle chiese, atta a contenere immagini sacre

[4] G.Bendinelli, “Edicola”, in Enciclopedia dell’arte antica, classica e orientale, a cura di R. Banchi Bandinelli, vol.III(1960), coll.214-216

[5] A.Mavilla, Le maestà nell’alta Val Parma e Cedra, Ravenna, 1996, p.29

[6] Cfr. H.M.R. Leopold, La religione di Roma, Genova, Fratelli Melita Editori, 1988

[7] Su stregoneria, culti pagani e tradizioni popolari in Romagna: N.Massaroli, Diavoli, diavolesse e diavolerie nella tradizione popolare romagnola. Alla noce di Benevento, in “La Piè”, n.7 (1923); M.Placucci, Usi e pregiudizi dei contadini della Romagna, Forlì 1818; P.Toschi, Romagna tradizionale, Bologna 1952; G.G.Bagli, Nuovo Saggio di Studi sui Proverbi, gli Usi, i Pregiudizi e la Poesia Popolare in Romagna, in “Atti e Memorie della R. Deputazione di Storia patria per le Province di Romagna”, Ser.III, vol, IV,1886, rist. an.Bologna, 1987; E.Baldini, Paura e Maraviglia in Romagna, Ravenna, Longo Editore, 1988.

[8] V.Fumagalli, Il paesaggio dei morti. Luoghi d’incontro tra i morti e i vivi sulla terra nel Medioevo, in “Quaderni Storici”, n.50, Bologna,1982, p. 419

[9] P.Guidotti, Madonne e santi nelle ceramiche devozionali. Una spia sul mondo di ieri, 1982, cit., cap. I; M.Cecchetti, Targhe devozionali dell’Emilia-Romagna, Silvana Editoriale, Milano, 1984, cit., cap. II

[10] M.Cecchetti, Targhe devozionali…, cit.,p.45

 

Ilaria Danesi
(testi tratti dalla tesi di laurea in Storia Contemporanea "Edicole sacre nel territorio. Aspetti di storia e religiosità popolare nel lughese")