Babini Enzo, Nel cuore della luce

Enzo Babini, Nel cuore della luce

Davanti alla verità c'è l'umiltà.

La prima onda luminosa di un “presepe” scaturisce forse dalla sua stessa definizione. Così, a titolo d’esempio, si può leggere nel Vocabolario Treccani, sub voce, per la sua etimologia: dal lat. praesepium o praesepe «greppia, mangiatoia», comp. di prae- «pre-» e saepire «cingere, chiudere con una siepe (lat. saeps saepis)».

Il “prèsepio” o “presèpe” è quindi un recinto, una delimitazione, dove la frugalità feriale della “greppia” o della “mangiatoia” non è dissociabile dalla sua recinzione campestre con una “siepe” (nulla quindi, nella radice remota della parola, che faccia pensare ad una grotta). Del resto il sacro non vive isolato, ma si definisce per opposizione al “profano”. Senza frontiera non vi può essere identità (la frontiera, dopo tutto, regola gli accessi e le uscite, non impedisce affatto la libera circolazione degli uomini e degli dèi). Il luogo della manifestazione terrena di Dio è sì declinato secondo l’infinitamente semplice e l’infinitamente piccolo (grotta, animali, paglia, pastori, animali: soprattutto, la fragilità dell’infante come sede paradossale della nuova vita dell’Onnipotente), ma conserva inalterata la sua natura di tempio (templum, in latino, serba traccia, a sua volta palese, del greco temno, tagliare). Romolo, che ad un “presepe” deve in fondo la sua salvezza e quella del fratello Remo, per sancire il proprio ruolo dovrà tracciare un pomerium, uno spazio sacro (Remo verrà sacrificato perché, nella sua impudenza, non rispettava quei confini d era divenuto, scriveva sorridendo Rédis Debray, un “saltafossi”).

Va da sé che l’umil presepio (così il Manzoni), riproducibile industrialmente, esposto all’arroganza della emulazione di una realtà desacralizzata, ha perduto l’aura che, non solo nel “presepe” di Greccio voluto da San Francesco d’Assisi, tutti noi gli riconosciamo, di là dalla fede personale (la panca simile ad una mangiatoia, nella sala ipogea dedicata al culto di Mitra, non meno delle recinzioni della sala stessa, recavano il nome di “presepe”).

La compensazione artigianale, manuale, miniaturizzata, che perdura e prospera, non stride ormai con la fattura meccanica e industriale di un luogo che rischia di perdere la sua fascinazione (ma è pur significativo di epoche sepolte nella loro prossimità alla nostra che “presepi” fossero denominali, negli stessi stabilimenti industriali, prima della istituzione delle “camere di allattamento” e degli asili nido, i locali “in cui durante le ore lavorative venivano accolti e custoditi i bambini lattanti delle operaie” (Voc.Treccani).

I presepi di Enzo Babini, con la forza sottesa dell’umiltà che si fa ponte verso la luce, paiono invece ricollocare il “presepe” in un’aura che il tempo e l’industrializzazione e commercializzazione del Natale non hanno ancora scalfito (a dimostrazione ulteriore che in arte, come in letteratura, non c’è progresso ma compresenza di tempi, di spazi, di sentieri).

Guardando le immagini, lo spettatore farebbe bene a non giudicare i singoli “presepi” come le testimonianze di diversi cammini, ma come un cammino unitario che sceglie di manifestarsi in un percorso plurale. Come questo avvenga, è sotto gli occhi di tutti coloro che ne ammirano la presenza. Babini, innanzi tutto, cancella il consueto, sradica la consuetudine iconografica, lasciandola nondimeno riconoscibile (poiché, in caso contrario, verrebbe meno la domesticità della rappresentazione natalizia. Il presepe è quindi delocalizzato, non è isolato ma vive in una dialettica con le forme di una geometria che, in sé stessa, appare l’unico strumento per rendere plasticamente l’inaccessibilità di Dio.

Ché, infatti, sul piano speculativo, Babini sembra voler innalzare la quotidianità del “presepe”, e, per farlo, sceglie le forme di un Dio che predilige manifestarsi numero, pondere et mensura. I “presepi di Babini non occultano insomma l’arcano del verismo della rappresentazione (lo stesso faceva il Pascoli delle Ciaramelle, con estatico stupore dinanzi alle ore che precedono l’alba: “sembra la terra, prima di giorno, / un piccoletto grande presepe” vv. 15-16), ma ne esprimono la manifestazione attraverso la sorpresa ricorrente di figure geometriche (cerchi, triangoli), di colori netti e vividi, che restituiscono complessità alla dimensione religiosa di questi manufatti. Nella società del corpo reificato e brutalizzato, la bellezza umana di Enzo Babini sceglie di suggerire l’incarnazione attraverso il suo opposto, l’astrazione. Con felice e geniale intuizione.

Questo gesto d’artista non pare immune da un signorile, aristocratico decoro dinanzi alla forza abbacinante di questi scrigni di luce.

 

Marco Veglia – Dipartimento di Italianistica, Università degli Studi di Bologna  (da ENZO BABINI, nel cuore della luce, Edit, Faenza 2012)