Fantuzzi Matteo, La Stazione di Bologna

Matteo Fantuzzi, La Stazione di Bologna

Feltrinelli Editore, Collana Zoom Poesia, Milano, 2017

«Viviamo un momento in cui si parla di società liquida ed emerge l’egoismo dei singoli. Anche per questo sottolineare la grande prova d’umanità dei bolognesi nella strage del 2 agosto del 1980 mi sembrava doveroso». Si chiama semplicemente La stazione di Bologna la nuova pubblicazione del poeta lughese Matteo Fantuzzi, che esce in questi giorni per un grande editore come Feltrinelli ed è naturalmente dedicata a quella che lo stesso poeta non esita a definire «La più grande strage italiana del Dopoguerra».

Che però, forse, in poesia non era mai stata affrontata.
«Non lo so per certo, ma è dalla poesia che vengo e non ho mai avuto dubbi sullo stile con cui raccontare questa strage – spiega Matteo Fantuzzi -. La forma è evoluta verso il poema nel tentativo di raccontare la giornata del 2 agosto, ciò che fu Bologna quel giorno: le vittime, i familiari, i cittadini. Cerco di restituire la memoria di quell’evento, pensando alle persone che non l’hanno vissuto. Un po’ come me, che avevo appena un anno».

L’importanza storica della strage è ovvia, ma cosa ti interessava in particolare?
«E’ un lavoro nato dieci anni fa, all’indomani di Kobarid, che raccontava la disumanizzazione indotta dal precariato. Nel finale c’era un testo che in qualche modo preannuncia il lavoro sulla strage, anche perché poi ho sentito il desiderio di raccontare l’umanità. E il momento più significativo della storia recente, in questo senso, mi è parsa la sagra di Bologna e la reazione degli abitanti. Roberto Roversi diceva che i bolognesi svuotarono i loro armadietti per offrirli alle vittime della bomba. I taxi erano gratuiti, i medici fecero doppi turni, la gente dava una mano come poteva; mi commuove la storia della vecchina che offre il caffè ai soccorritori. L’orrore della strage ha risvegliato questa bellezza».

L’approdo su Feltrinelli pensi sarà un punto di svolta?
«Di sicuro è un approdo perfetto, specie per un lavoro che si rivolge a tante persone. Uno dei più grandi marchi editoriali europei mette a disposizione una grande struttura, è fantastico. Ci si arriva presentando bene il proprio progetto, e poi conta la gavetta».

Che tu hai fatto, curando anche antologie di poeti della tua regione e della tua generazione, Under 40 insomma. Queste caratteristiche sono dei limiti?
«Lo erano 20-30 anni fa, si diceva che non si poteva essere poeti al di sotto di Roma. Oggi le cose sono cambiate anche perché i poeti si leggono tra loro e si aiutano. La mia generazione è cresciuta così e si è trovata con un pubblico fatto di numeri piccoli ma di lettori accaniti. Sul versante del localismo, i grandi dialettali come Tonino Guerra e Tomino Baldassari hanno raggiunto un pubblico notevole scrivendo in vernacolo, la nostra regione è stata pioniera in questo. Isabella Leardini è mia coetanea e da anni cura, a Rimini, il festival Parco Poesia, il maggiore d’Italia. Del resto, le antologie che ho curato hanno avuto riscontri presso le Università straniere perché solo in Italia, a 35 anni, sei considerato un poeta giovane. Nel mondo anglosassone vieni preso per un maturo rappresentante della contemporaneità».

 

Federico Savini (intervista a Matteo Fantuzzi sul settimanale Settesere del 28 marzo 2017)