Gagliardi Paolo, Al röb al cambia

Paolo Gagliardi, Al röb al cambia

Casa Editrice L'Arcolaio, Forlì, 2013, prefazione di Fabio Franzin

Da alcuni anni la poesia italiana – sia in lingua, sia in dialetto – si è riappropriata, a mio avviso, del ruolo che le compete, o perlomeno del suo ruolo principe: parlare all’uomo dell’uomo, delle sue vicissitudini dentro la realtà. Anche la lingua con cui dice si è fatta meno artefatta, il discorso meno oscuro e ingarbugliato, non per questo meno efficace. Anche il lettore, o l’uditore della stessa ai reading lo chiede, e ne è compartecipe, sente che, finalmente, la poesia parla anche di lui, delle sue angosce, delle sue ansie. È l’irrompere della realtà, della cronaca, in uno snodo epocale che chiede di essere descritto e cantato, che chiede un’epica, una testimonianza. Perché le cose cambiano, come recita il titolo di questa densa raccolta di Paolo Gagliardi. Cambiano e ci cambiano. Mutano le prospettive, le aspettative, strappando progetti e serenità. Perché ci è caduta addosso la frana di questa crisi, che non lo è solo nel dato puramente economico, ma è qualcosa di più grande ancora della perdita di lavoro o del non accesso allo stesso per milioni di persone, delle nuove povertà: è la crisi di un sistema fra noi e le cose, fra noi e gli altri, fra noi e il cosmo. Le cose cambiano, e quando cambiano, così repentine, resta sempre un troncone di tempo da rinsaldare, un tempo perso, tramortito, un corpo che frana e cerca gli appigli.

Nel suo dialetto romagnolo, Gagliardi l’appiglio lo cerca nelle sue parole. Sta franando (quanto è distante ora l’oleografia del poeta cinto d’alloro, seduto allo scranno di un’accademia, o con la nuvola a farle cappello!) e chiede soccorso ai suoi segni per non finire nel bur, / quel ch’l’è a là, d’có d’pösta (buio, / quello che è laggiù, in fondo); e tale è la devozione ad essi, tali fede e fedeltà nella scrittura, che il poeta stesso si trasforma in ciò che scrive, muta, cambia: La pël la s’è fata lesa, / céra coma la chérta. // Al veiñ agli è dédi fura, / scuri coma l’inciöstar. // A so gueint quel ch’a scriv. (La pelle è diventata liscia, / chiara come la carta. // Le vene sono diventate grosse, / scure come l’inchiostro. // Sono diventato ciò che scrivo). L’aderenza dell’uomo con la sua scrittura è ciò che il poeta chiede, pretende con se stesso, e spesso è anche ciò che il lettore chiede al poeta. Perché è quasi sempre nei sommovimenti, in ciò che cambia, improvviso, nella perdita e nel lutto, come nelle esplosioni della gioia, che l’uomo rientra al suo interno, ritrova la propria anima. Così, mentre le cose cambiano attorno a lui, nella propria carne, il poeta ritrova se stesso, e la pagina ce lo offre così, nudo, fragile, più vero.

La raccolta che qui si presenta, dà conto del tema in cui, tutto l’Occidente sembra invischiato per cause che paiono ai più oscure: nel continente ricco, guida del pianeta in quanto a storia, democrazia e benessere, si apre di colpo una falla, una faglia in cui sprofonda il popolo tutto, con il suo status, i suoi euro, le sue garanzie; si perdono milioni di posti di lavoro, e altri milioni di giovani non ne hanno accesso, col rischio, gravissimo, di trovarci di fronte al dato terribile di una generazione perduta. Ma il poeta non è un sociologo. Non può che descrivere questa ecatombe se non riportandola al di sotto dei diagrammi, delle algide cifre, raccontandola nello strappo alle proprie carni, dall’interno di una casa, una famiglia, una comunità.

Ed ecco che quando il poeta perde il lavoro, pochi anni prima della pensione – perché anche i poeti lavorano e sudano, tutti, ed è questo che gli insegnanti dovrebbero ricordarsi di puntualizzare nelle loro lezioni, perché il poeta è un uomo fra gli uomini, con le preoccupazioni di tutti, non una cometa appesa nel cielo, o un dio che vaticina da un palco – attua le sue misere, umane, strategie per tirare avanti, per sopravvivere al cambiamento. Per non spendere, per esempio: a j ò impinì cun dagli égh e’ partafoi (ho riempito di aghi il portafoglio), stratagemma davvero acuto, acuminato, metafora davvero pungente, se qui mi si permette una banale grossolanità; o per non sprecare il cibo che avanza: Se dmenga u j armasta /  dla chérna da bród, /mért a i dëgh la źounta / cun de’ pen graté, dla fórma, /  dagli óv e di pardisol /  e pu a fëgh al pulpet freti. (Se domenica avanza / della carne da brodo, / martedì ci aggiungo /  del pane grattugiato, del parmigiano,  / delle uova e del prezzemolo /  e poi faccio le polpette fritte). È il popolo, nel portato suo più vero, quello che l’inchiostro di Gagliardi fissa sulla pagina, dove c’è chi, come la vecchietta vicina di casa del poeta, che dopo aver finito il mensile della pensione, i suoi risparmi, vende la fede nuziale per giocarseli nelle slot machines; o chi baratta il suo tempo, diventato ora purtroppo libero, per l’intervento di un antennista; o ancora chi trova il coraggio, dopo do dida d’pitura (due strati di trucco) per fare la statua candida e immobile (chiamata dal poeta fantasma), per tnir int al men che piat, / a lè, in faza a l’ipercoop (tenere in mano quel piatto, / lì, di fronte all’ipercoop), di chiedere, cioè, l’elemosina.

Fra i versi di Gagliardi sembra di ritrovare, anche nel dolore e nella disperazione il sapore e l’ironia dei suoi predecessori conterranei, di Baldini o di Tonino Guerra, il cinema di Fellini, tutto il circo e la commedia di una umanità dolente, ma non perciò meno viva, pulsante. Come il poeta che fa i conti coi suoi chili di troppo, quando sa che il poeta, per antonomasia, è un morto di fame, o il disoccupato che dice alla moglie t’am pu mandé tota la smena / a fé la spéşa int e’ discaunt (puoi mandarmi tutta la settimana / a fare la spesa al discount), ma non vuole rinunciare ad andare a cena fuori, il sabato sera, come quand ch’a simi sgnur (quando eravamo ricchi).

Se uno dei pericoli più concreti che questa crisi può scatenare è un conflitto sociale, una guerra fra poveri, fra i nuovi poveri di questa società opulenta - di questa Italia sempre più piccola e sempre meno in grado di salvaguardare i meno fortunati – e i tanti Ulisse della fame che approdano alle sue coste, come “dell’orda” di genti dell’est (per dirla alla Stella); se davvero arriveremo a scannarci per un posto di lavoro mal pagato, per un posto nella fila alla Caritas, allora chi perde il proprio lavoro e vede il vicino albanese, ghanese o romeno che il posto ce l’ha ancora, mal pagato, certo, precario, certo, ma sempre un posto che permette il pasto, allora quel cassintegrato, quel disoccupato che ha lavorato per 35 anni, fatto il servizio militare per il suo paese, pagato le tasse, ecc… dovrebbe provare una rabbia grande, sia verso il suo paese, sia, condita dall’odio, verso questi “stranieri” che vengono qui a rubare il lavoro. Recenti fatti di cronaca dimostrano che l’odio razziale è un sentimento tornato di moda, fra le fauci di questa crisi.

Così non è invece in Gagliardi, pure lui disoccupato, con figli da sfamare. Non solo perché poeta, ci sono stati dei poeti orribili umanamente (se poi pensiamo che anche Hitler, o Mao hanno scritto dei versi) ma soprattutto perché, come ha ben descritto, ormai è diventato ciò che scrive, è un uomo, prima di essere un poeta, è come se la parola, in lui, avesse finalmente raggiunto l’uomo che cercava di catturarla con lo sguardo. Fra i suoi versi emerge quella pietas che sa di umanità e fratellanza verso chi fugge alla fame e alla guerra, alle persecuzioni, verso quel “cimitero marino” che è ormai il Mediterraneo: Nóv miş pr avdé la luş, / nóv ór par turné int e’ bur. // L’aqua la j à dé la vita, /  l’aqua la s’l’è tólta in dri. (Nove mesi per vedere la luce, / nove ore per tornare nel buio. // L’acqua ha dato loro la vita, /  l’acqua se l’è ripresa indietro). O ancora: I diş che quand ch’i jj à truvé / e’ paréva d’tiré so di toun (Dicono che quando li hanno trovati / sembrava di tirar su dei tonni).

Con questa sua raccolta più autentica, Gagliardi ci dice che le cose cambiano, possono cambiare e a volte debbono cambiare, creare buio, nebbia, disorientamento, intorno o dentro di noi, che possono minare le basi delle nostre umili esistenze, riportarci al cospetto di una povertà che nessuno più si aspettava, ma che non devono e non possono fare di noi delle bestie, toglierci ciò che si conquista con una vita intera fra gli altri, rispettandoli, ciò che ci fa stare dentro una comunità con onore: l’essere, prima di uomo o poeta, un galantuomo. La poesia, per fortuna, può fare anche questo. E non è poco.

 

Fabio Franzin (prefazione alla raccolta)