Gagliardi Paolo, Fent caval e re

Paolo Gagliardi, Fent caval e re

Casa Editrice L'Arcolaio, Forlì, 2015, prefazioni di Gian Ruggero Manzoni e Nevio Spadoni

L’Io narrante di queste poesie di Paolo Gagliardi è quello di suo nonno Taddeo Tampieri, romagnolo, classe 1889, fante durante la Prima Guerra Mondiale. Già da questa componente si comprende il transfert poetico e identitario che va a unire l’autore a chi (per lui) è stato, donando continue immagini di memoria in cui ogni possibile eco di retorica o pietismo viene ammutolita dalla purezza del racconto e da una sconcertante mitezza, oserei: pace, componente inconsueta per una raccolta che parla di un conflitto che è costato all’umanità milioni di vittime. Con un procedere quasi ungarettiano, tramite brevi composizioni, Gagliardi entra nella vita di tutti i giorni, in quell’esistenza, fra trincee e cariche disperate alla baionetta, che fu dei nostri militari, per lo più di umili origini, che per anni vennero mandati al macello… “mentre il re stava ben caldo sotto le coperte, e se la dormiva profondamente”.

Come appunto ebbe a scrivere il grande poeta nato ad Alessandria d’Egitto, in trincea anch’egli in quei giorni terribili, anche in Gagliardi il conflitto diventa un pretesto al fine di riflettere, con carezzevole trasporto, sull’umanità, quando questa è portata al limite: “Nella mia poesia non c’è traccia d’odio per il nemico, né per nessuno; c’è la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell’estrema precarietà della loro condizione. C’è volontà d’espressione, necessità d’espressione […], quell’esaltazione, quasi selvaggia, dello slancio vitale, dell’appetito di vivere, che è moltiplicato dalla prossimità e dalla quotidiana frequentazione della morte.” (Giuseppe Ungaretti in “L’allegria”).

Alla resa dei fatti, tale calvario, per chi semplice tra i semplici, si trasforma, in questa silloge, in una sorta di giro di carte con la Grande Mietitrice, simile alla partita a scacchi che il Cavaliere gioca appunto con la Morte in quel gigantesco film dei film che è “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman. Gagliardi riesce con tratto lirico, a penetrare il nostro animo in accezione indubbia-mente icastica, con penna asciutta, senza sbavature, a volte ricorrendo al sarcasmo che è tipico della nostra etnicità, senza indugiare sull’atto d’accusa, così che il folle “non senso” che dimora in ogni guerra trova un valore intrinseco almeno in ciò che è descrizione della quotidianità del soldato, svolta con ritmo, in versi liberi, a volte condotti fino a una sintesi sillabica minore in proporzione al contesto in cui vengono inseriti.

La parola risulta quindi e spesso nuda, ben allacciata alle atmosfere, completamente svincolata dalle incrostazioni letterarie e ironiche che furono dei Crepuscolari e dal semantismo approssimativo degli sperimentali, rifiutando l’ambiguità e la mancanza di stile. Perciò la “parola” è, si pone, ritrova peso, misura, consapevolezza di sé, e ancor di più quando si propone in accezione ancestrale, carnale, genetica, come di chi usa il suo dialetto d’origine per dire e per dirsi, e sempre nel tentativo di legare, indissolubilmente, la storia alla poesia, intesa come conoscenza, passione e fede nel vero.

La ricerca che Paolo Gagliardi sta portando avanti da anni, nel nostro territorio, riguardante chi dimenticato, perché non celebre o non più celebrato, uno o una fra i tanti o le tante (o divenuto/a tale), oppure riguardo i monumenti dimenticati, le tombe abbandonate o sperdute in piccoli cimiteri di campagna, le lapidi stinte, i tempietti sacri nascosti dalla vegetazione, affiora in maniera indiscutibile anche in questo suo insieme. Il “piacere del particolare”, come lo definiva quel grande scrittore che fu Francesco Biamonti, ritorna, quale valore più alto, quale proposito più nobile, divenendo, questa, per colui che sa, “l’epoca delle piccole cose”. Proprio perché tutto sembra convincerci che occorra farne di grandi e che è difficile, anzi impossibile, per ogni individuo, cambiare davvero il mondo perché, singolarmente, pare non se ne abbia la forza, ecco che invece, tramite tutto quello che di concreto, sebbene minimo nella parvenza, si può compiere nel quotidiano, diviene rivoluzionario.

Del resto sono le idee che cambiano il mondo, ma solo quelle che col mondo sanno trovare un collegamento concreto e costruttivo, solo quelle che sanno incidere sulla realtà, riescono a fare breccia e a dimostrarsi dirompenti, seppure si avvertano, inizialmente, come leggere nel respiro. Infatti non esiste soddisfazione più grande dello scoprire che, grazie a ciò che pur di minimo abbiamo fatto, qualcuno ha compreso, ha ripreso a credere, ha ricominciato a vivere, ha ricordato. In tale processo il poeta diviene cassa di risonanza della voce di chi voce pare non abbia, ritrovando un ruolo, riappropriandosi “di quel ruolo”. In così meraviglioso processo di “rinascita ideale” non si tratta di cercare delle risposte, quanto di porsi domande, di uscire dall’indifferenza, dalla estenuante sensazione che tutto ormai sia noto e scontato, dalla passiva accettazione di visioni della vita indotte da altri per di nuovo chiedersi il che cosa sia davvero importante, con autenticità, con modestia, rifiutando le globalizzazioni economiche (omologanti e massificanti) per riportare alla luce quello che di prezioso ancora ci consegna, ad esempio, il “genius loci”.

In ciò il valore della tradizione e i principi su cui si basano la premurosità, la continua attenzione, la benevolenza, l’affetto nei confronti di chi mai si è conosciuto di persona, ma, appunto, “è stato” e sempre “è e sarà”. Gagliardi è conscio di questo, come dell’importanza della sacralità che la poesia in sé contiene, così che l’analogia, che in lui risulta quale collante espressivo, diventa filo conduttore del suo porsi in scrittura, eliminando i “come”, i “perché”, mettendo in contatto continuo spazio con spazio e tempo con tempo, in modo che l’insieme risulti  di una contemporaneità ben fissata, come è sempre un presente la dimensione del dolore, del distacco, della perdita, della fede, dell’amore, della speranza, della consapevolezza, della ineludibile finitudine materica dell’uomo, ma non di ciò che in esso dimora di spirituale, di trascendente, di ideale, di genuino, di puro, di tenero.

Se una granata li ha fatti sparire sul Carso, sul Grappa, sul Piave, in un boato poi in una nuvola di fumo, aspro alle narici, Gagliardi li riporta fra noi, perché mai alcuno possa risultare “ignoto”, “disperso”, “abbandonato”… quindi senza più un nome, una famiglia, un affetto, una casa.

 

Gian Ruggero Manzoni (prefazione alla raccolta)