Lugo, Molino Giunchi

Lugo, Molino Giunchi

 poi Bondanelli (1905 – 1951?) - angolo fra Via Risorgimento e Via Acquacalda

L’area fra Via Risorgimento e Via Acquacalda era soggetta a vincolo architettonico e, nel 2002, gli architetti lughesi, Fabio Carone e Angela Tampieri, fecero una interessante “Relazione Storico-Artistica”, per conto della Soprintendenza. Prima di estrapolarne qualche gustoso assaggio, facciamo un passo indietro al Catasto Urbano del 1911. A quell’epoca, non era ancora in uso il nome Via Acquacalda e la circonvallazione si chiamava “Via Foroboario” (nome che esiste ancora oggi, ma solamente per il tratto dal semaforo di Porta Brozzi fino all'intersezione con Vicolo Macello Vecchio, all’altezza dell’ex Consorzio Agrario).

Nei primi anni del ’900, la signora Carlotta Martini del fu dr. Stefano, già vedova Berardi, di Bagnacavallo, vendette sia l’«area di corte ora Molino a gas povero a tre palmenti», sita in “Via Foroboario 42-43” (la piastrella di quest'ultimo numero civico, nel 2002, era ancora visibile sul muro prospiciente via Acquacalda), sia la casa sita in via Risorgimento (allora 82, oggi 112). Quattro erano gli acquirenti: Laghi Domenico (mugnaio), Bucchi Achille (bottaio), Dirani Sante (falegname) e Fusignani Domenico (meccanico). «Con ogni probabilità – scrissero Carone e Tampieri – nel sito furono concentrati questi tipi di attività artigianali». Ma evidentemente fu l’attività molitoria ad avere il sopravvento e a ribattezzare l’intero complesso col nome di “Molino Giunchi”, dal nome dei signori Giunchi Maria e Laghi Domenico, entrambi mugnai, abitanti in via Risorgimento ex 82 fino al 1951. Pare che dopo Giunchi ci sia stato anche un altro mugnaio, tale Bondanelli.

Il primo mulino, costruito fra il 1905 e il 1910, era a palmenti, cioè fatto di macine composte di sassi racchiusi da anelli di ferro. Successivamente – diciamo a partire dagli anni ’20 – si diffuse quello azionato da cilindri elettrici, dando vita a un mulino di “I categoria”, cioè “automatico”, che macinava il frumento ottenendo lo sfruttamento dell'intero contenuto farinoso del chicco di grano.

«Dei due ambienti esistenti a nordest – si leggeva nella relazione degli architetti lughesi – uno era destinato al deposito di grano e l’altro ad esso adiacente era riservato per la macinazione tramite macine di pietra. Qui si svolgeva la bassa macinazione automatizzata. Il resto dei locali era strutturato per contenere le macchine per l’alta macinazione. […]. La prima fase della lavorazione molitoria comprendeva la pulizia del grano dalle impurità grossolane. Tale fase era svolta dalla “pulitrice”; poi il grano era lavato nella “lavagrano”, macchina poggiante a terra sopra una vasca nella quale andava a ricadere l’acqua sporca che poi era smaltita. Parte fondamentale di questo macchinario era la coclea che girava il grano nell’acqua. Il grano saliva al piano superiore tramite una tramoggia ed entrava in cassoni di legno. Da qui risaliva e riscendeva fino a raggiungere i cilindri. Ogni laminatoio “passava” la farina due volte. Alla fine del ciclo di macinazione, comprendente altri sei passaggi, si otteneva il prodotto finito.

Le macchine a cilindri erano sistemate sul “piano macchine”; sopra al soffitto c’erano i “plein sister” che selezionavano il prodotto per la “caduta”. Al primo piano, raggiungibile con una scala, si trovavano le “spazzole”, ognuna delle quali aveva il compito di pulire un prodotto dall'altro. Dopo di che, con l'imboccasacchi erano preparate le confezioni.

Esternamente una tettoia percorreva tutti i lati degli edifici sul piazzale interno, servendo alla sosta di chi arrivava col carico di grano. […].

I progetti di restauro superarono l'esame della commissione edilizia e, nell'area dell'ex mulino Giunchi, sono poi sorti uffici e abitazioni.

Giovanni Baldini