Giuseppe Piccinini, detto Pacioli, dal soprannome del padre Luigi, nacque a Bagnacavallo il 21 maggio 1895 e qui morì il 9 gennaio 1979.
Il mestiere di imbianchino e decoratore lo condusse in luoghi diversi fra cui Roma e Basilea, ma soprattutto lo introdusse nelle case borghesi e nei palazzi di Bagnacavallo, ove ebbe modo di ammirare gli affreschi e le chiare decorazioni a tempera sette/ottocentesche che lo affascinarono per quella loro patina di antico e di nobile e per quei richiami iconografici al mito che davano loro il senso e il gusto della grande tradizione del mondo classico. I paesaggi, le allegorie, le volute, i cartigli, quella maniera rapida e sicura dei decoratori locali del passato, lo colpirono profondamente e gli fornirono la base di riferimento di tutta la sua pittura. Come gli antichi, si preparava i colori da solo utilizzando le terre (tre basi più bianco e nero) che pazientemente impastava con olio di lino e spalmava su tavolette di compensato o masonite spesso preparate a gesso oppure anche senza preparazione alcuna. Lavorò poco o niente su tela perché le tele costavano ed erano anche ingombranti per un pittore ambulante quale lui era.
Negli innumerevoli lavori su carta, sempre eseguiti con pochi colori e spesso ripassati a penna sui bordi, si nota in modo evidente la similitudine con le tecniche e le tinte dei decoratori ottocenteschi. Pacioli non poté permettersi e forse non ne ebbe neppure il desiderio, di frequentare scuole d'arte. Dai cinquant'anni in poi dovette vivere con una misera pensione di invalidità e i pochi soldi che riusciva a ricavare dalla vendita dei suoi dipinti gli erano necessari per sopravvivere. Sembra ancora di vederlo quando entrava dal barbiere o nei bar con la grande cartella sotto braccio gonfia di dipinti che iniziava a mostrare attorno e gli uomini che si avvicinavano commentando le sue opere con ironia e aria da intenditori e lui che, come sempre, si inferociva con gli occhi fuor di testa e la bocca piena di imprecazioni. Alla fine tuttavia, qualcosa riusciva a vendere e allora insaccava tutto e se ne andava a ripetere immancabilmente la scena da un'altra parte. Lo vedevi al lavoro "en plein air", col cavalletto, coi suoi colori puzzolenti, semisommerso da un gigantesco basco scuro afflosciato sull'orecchio sinistro. A volte lo trovavi alla stazione con tutti i suoi attrezzi che aspettava la littorina per qualche paese vicino o per le colline, in cerca di paesaggi o di scorci da riprodurre.
I suoi orizzonti artistici furono quelli della sua cultura e del rapporto che aveva col mondo. Non conosceva l'anatomia, soprattutto quella femminile; eppur si ostinava a copiare, con incerti risultati, bellezze procaci dai calendari che gli capitavano sottomano. Spesso negli scorci e nei paesaggi, non sapeva risolvere le questioni prospettiche e allora vedevi strade che salivano in cielo, porte e finestre fuori squadro, campanili e chiese pericolanti. In occasione della mostra, patrocinata dal Comune di Bagnacavallo, che gli allestimmo nel '74, durante la cena, dopo la consegna di una medaglia d'oro offerta dai pittori bagnacavallesi, si esibì nel suo celebre sproloquio sui "cannòni" (cànoni) dell'arte in cui poneva Raffaello, Michelangelo e Tiziano come mete ideali della sua pittura e dell'arte in genere. Qualche tempo prima si era fatto espellere dalla Biennale di Venezia per invettive e oscenità varie scagliate all'indirizzo delle opere "degenerate" che gli stavano attorno.
Iracondo, borbottone ed esibizionista per innata timidezza, visse il suo tempo con coraggiosa dignità. Fu un solitario dal carattere scontroso e diffidente che per sopravvivere dovette dolorosamente venire a patti con l'ambiente in cui viveva. Volle ingenuamente essere artista e sicuramente lo fu, seguendo le proprie convinzioni e i propri modelli comportamentali.
A settantacinque anni scrisse e distribuì in giro il testo "Della realtà democratica" autentica summa del suo pensiero esistenziale in cui erano fissati i punti imprescindibili per un nuovo umanesimo. Chiedeva ai governi un'arte per tutti, una sola lingua (senza tuttavia specificare quale) e l'abolizione della schiavitù. Citava Manzoni, Dante e gli Antichi, nel sogno vagheggiato di una vita tipicamente stoica, semplice e modesta, senza brame, lontana dalle passioni, senza violenza. Ma quale artista era dunque un pittore che non aveva frequentato scuole, che non aveva maestri, non conosceva l'anatomia, pasticciava con la prospettiva, copiava calendari, e per giunta dipingeva con tre colori?
I suoi soggetti, paesaggi di preferenza a campo lungo, colline e campagne, marine, piazze, strade e chiese, fiori e figure, rappresentano il mondo semplice e pulito del suo sguardo. E' un mondo con poca gente, chiaro, un luogo ove la natura e le cose, nella loro essenzialità, sanno offrire le maggiori certezze, le più pacate emozioni. La sua pittura, atemporale e apparentemente statica, sa offrire impensabili momenti di poesia e di sommessa dolcezza. Punti di osservazione spesso elementari che tuttavia sanno cogliere le atmosfere e le risonanze tipiche dei luoghi, le scansioni del tempo, la sua definizione e i segni lasciati sul mondo. Una pittura in pace con se stessa, priva di tecnicismi, senza dubbi o reticenze, lontana dall'ambiguità del mondo odierno. Una capacità di sentire forse più che di vedere. Un approccio diretto, privo di particolari mediazioni culturali ove tutto sta al posto giusto senza tragedie o equivoci sottintendimenti; una pittura sospesa fra cronaca e sentimento ove l'uomo, la natura e le cose sanno ancora convivere con dignità e armonia.
Tutto questo e altro ancora è stata la pittura di quest'uomo dalla vita agra, faticosamente spesa in mezzo a noi, dai più irriso e negletto; che tuttavia, quando se n'è andato, ha lasciato in questo paese un vuoto a stento colmato dalle sue opere che abbelliscono le nostre case.
(Carlo Polgrossi)
E' sepolto nel cimitero di Bagnacavallo.