Ferroni Daniele – 04 Il collezionista di vetri

Daniele Ferroni - Il collezionista di vetri

Casa Editrice Italic, Ancona, 2015, testi di Stefano Simoncelli, prefazione di Giancarlo Sissa

Gentili rovine del silenzio

Leggendo e guardando con attenzione Il collezionista di vetri di Stefano Simoncelli e Daniele Ferroni mi è accaduto di pensare che la mitezza indifesa spezza poeticamente l’ordine delle cose perché è una santità inconsapevole, una superiore categoria di dignità, di assoluto, di ingenuità. E in effetti cosa hanno in comune la storia di quest’uomo che raccoglie vetri nelle parole di Stefano e gli spazi fotografati da Daniele? La risposta che mi sono dato è che sia la storia di Donato Pocaterra che le immagini scelte a dialogare col testo sono asimmetriche rispetto ai sistemi simbolici di riferimento, rispetto alla storia che li ospita, alle comunità di senso che li mal sopportano. Del resto, ma assai di rado lo si considera con la dovuta attenzione, l’umiltà, l’arte, la tristezza e la sconfitta innocente sono forme testimoniali dell’umano e delle possibilità del silenzio che ci atterrisce.

Se è vero, come sostiene Leonardo Ceppa nella sua introduzione a Minima moralia. meditazioni della vita offesa di  Theodor W. Adorno, che “come la felicità individuale passa attraverso la restituzione della propria infanzia – l’inveramento dei suoi bisogni profondi – così l’intera storia umana non deve perdere di vista l’idea arcaica dell’innocenza”, allora i luoghi fotografati da Daniele Ferroni in quanto “luoghi di vita prodotti da una storia più antica e più lenta” secondo le parole di Marc Augé, sono luoghi dove le solitudini si dimenticano per un istante, luoghi che ci restituiscono l’immagine di ciò che non siamo più e che testimoniano una discontinuità nello spazio e nel tempo che dovrebbe preoccuparci perché rende inattuali, polverosi e prossimi ad appassire nella nostra anima intere porzioni di vita e di storia comune.

E allora ecco che cantine, stalle, giacigli improvvisati, sottotetto, vecchie scarpe, biciclette, scale di legno, carriole in disuso, sotterranei, quei particolari scaldaletto detti gergalmente “preti”, mani di legno giunte in preghiera, si pongono come capolavori di significato, solai della nostra storia diroccata e della nostra coscienza sciroccata, cantine dell’inconscio, oggetti che qualcuno ha deciso malati, inutili, da gettare, da scordare, da lasciare sul tavolo di lavoro in un laboratorio abbandonato per sempre come a seguito di una fuga precipitosa dall’assalto nucleare della modernità o “surmodernità” plastificata. […..]

 

Giancarlo Sissa