1943-07: 26 – I fatti di Lugo

26.07.1943 - I fatti di Lugo

Manifestazioni in piazza. Devastazione sede del fascio. Sparatoria dei militari.

A Lugo la giornata di lunedì 26 luglio era iniziata in modo normale. L’annuncio radio della domenica sera era diventato l’argomento del giorno. In ogni luogo pubblico, di casa in casa, nei posti di lavoro, fra gruppi di cittadini sempre più numerosi, la discussione si faceva ampia e animata. Le espressioni di condanna, e al contempo di esultanza, contro le nefandezze del fascismo (e contro quei personaggi locali che per vent’anni, auspici il regime, avevano spadroneggiato indisturbati in città, macchiandosi di crimini indecorosi e perseguitando gli antifascisti) si esternavano finalmente in modo aperto, alla luce del sole. Durante la mattinata, i peggiori figuri del fascio lughese scomparvero dalla circolazione o si nascosero in posti sicuri. Presero letteralmente il largo, infatti, alcuni degli squadristi più feroci, responsabili delle peggiori malefatte, tra i quali Lorenzo Bezzi, che ricopriva la doppia carica di podestà e di segretario del fascio, i fratelli Arturo e Leonildo Faccani (soprannominati rispettivamente “Trotzskij” e “Lenin”), Mario Poggiolini, Antonio Vistoli (“Piretta”) e Giulio Reggi. Molti dei più zelanti fascisti legati all’ideale, per non dire di quelli iscritti al P.N.F. sia per conservare il posto sia per pigrizia mentale o per semplice opportunismo, pensarono bene di fare scomparire dall’occhiello della giacca il distintivo fascista (la cosiddetta “cimice”, come era stata ribattezzata dall’arguzia popolare). Diversi di costoro si recarono nonostante tutto, al loro posto di lavoro, incuranti delle umiliazioni e degli insulti loro indirizzati.

Nella mattinata non si erano verificati episodi di violenza popolare degni di rilievo. Fu soltanto nel pomeriggio che dalle vicine località della Bassa Romagna (Voltana, Giovecca, San Bernardino) affluì in Lugo, a bordo di automezzi, un gran numero di lavoratori, per manifestare contro il regime. Fu come una scintilla; in un breve lasso di tempo, molti lughesi abbandonarono le loro occupazioni e si unirono ai manifestanti giunti da fuori. La rivolta da tanto tempo agognata si scatenò innanzitutto contro la sede del fascio, che fu devastata, poi contro le altre istituzioni fasciste. I simboli del ventennio furono ovunque abbattuti e divelti e non pochi fascisti, che dimentichi dei loro trascorsi delinquenziali erano rimasti tranquillamente in città, subirono percosse nelle loro stesse abitazioni.

Io, che lavoravo come apprendista presso l’officina di elettrauto di Luigi Cassani, all’arrivo dei manifestanti non esitai a deporre gli arnesi del mestiere, a lasciare il lavoro e ad unirmi ai cittadini che sempre più numerosi davano sfogo alla loro rabbia per troppo tempo repressa e andavano alla ricerca dei fascisti. Fino all’imbrunire la città fu percorsa da cortei di manifestanti, mentre si ripetevano le scene sopra descritte, sia lungo le principali strade sia agli indirizzi di noti fascisti. Gli esponenti dell’antifascismo lughese, indipendentemente dalle diverse correnti politiche, si erano mobilitati e concordarono d’indire una riunione di tutti i manifestanti presso la Birreria Minardi (“Marach”) la sera stessa del lunedì 26 luglio, per esprimere un primo giudizio sul movimento che si era creato ed indicare il da farsi per il giorno successivo. L’alta partecipazione rappresentò un fatto senz’altro positivo e significativa fu l’unità raggiunta dalle forze antifasciste che pubblicamente si disponevano ad affrontare una battaglia di libertà con precise richieste: punizioni esemplari per i delitti fascisti, fine immediata della guerra, costituzione di un governo democratico. Fra i presenti a quella riunione ricordo alcuni esponenti di primo piano del Partito Comunista lughese: Fulvio Tellarini (“Nino”), Domenico Mongardi (“Guccio”), Emilio Camanzi (“Gagg”), Vincenzo Giardini (“Cencio”), Bruno (“Brunaso”) e Nino Pasi, Sante Baracca (“Tino”). Con loro, anche rappresentanti repubblicani, socialisti e liberali. L’incontro affrontò inoltre la necessità di disciplinare il movimento spontaneo che si era creato, così da impedire atti di vandalismo e contenere gli eccessi di alcuni dei manifestanti. Furono quindi assegnati compiti precisi a vari antifascisti per coordinare l’afflusso ed il comportamento dei manifestanti, nonché la requisizione di divise, labari, gagliardetti ed altri stendardi fascisti, destinati alla distruzione sulla pubblica piazza in un unico grande rogo. Io fui destinato tra gli addetti alle requisizioni. La mattina di martedì 27 luglio mi posizionai sulla pedana di un vetusto 18 BL Fiat a gasogeno dell’Oleificio Minardi (“Muneda”), alla testa di una fitta carovana di automezzi stracolmi di manifestanti che esultavano e sventolavano bandiere tricolori, ed ebbe inizio il lavoro di prelievo dalle abitazioni dei fascisti di tutti i simboli del defunto regime. Era corsa voce che il famoso squadrista Tommaso Lega avrebbe opposto resistenza, anche armata, nei confronti di quanti si fossero presentati a casa sua. La notizia, poi rivelatasi infondata, m’indusse a prendere alcune precauzioni; così mi armai di revolver e mi riempii la tasca sinistra dei pantaloni di abbondanti cartucce, intenzionato a rispondere al Lega o ad altri fascisti che avessero fatto ricorso alle armi. Ma non si riscontrò alcuna resistenza da parte dei famigliari dei più noti fascisti e la colonna dei dimostranti poté percorrere le vie cittadine senza alcun impedimento. Ad un certo punto, però, il corteo si diresse verso Via del Risorgimento e, allorché ebbe raggiunto l’incrocio con il cosiddetto “vicolo” Ricci Bartoloni che si congiungeva con il Corso Vittorio Emanuele (attuale Corso Matteotti), fu investito da una raffica di fucileria. Soldati armati di moschetto correvano verso la colonna e sparavano all’indirizzo dei dimostranti. Questi ultimi cominciarono a lanciarsi fuori dagli automezzi e a cercare riparo. Nel contempo altri militari, dotati di una mitragliatrice messa in postazione, guidati da ufficiali armati di pistola, avanzavano verso la testa della colonna e sparavano contro gli uomini e le donne accalcati sui primi veicoli. Per sottrarmi alla sparatoria, mi gettai di slancio dentro la cabina di guida del grosso camion ed impugnai il revolver. In quel mentre un ufficiale, che si era aggrappato allo sportello del camion dalla parte del guidatore, fece fuoco contro di me e l’autista. Rimasto sorpreso dalla mia reazione – gli puntavo contro la pistola – esplose numerosi colpi a vuoto ma riuscì comunque a ferirmi di striscio alla gamba sinistra. L’autista del camion, Giuseppe Zaganelli (“Pagnoch”), vista la mala parata, abbandonò il volante e si dette alla fuga. Rimasto senza guida, l’automezzo andò a sbattere contro una casa e fu in quel momento che, nel nascondere la pistola sotto il cuscino del camion e nel disfarmi delle cartucce che avevo in tasca, ritirai la mano insanguinata e mi accorsi che la gamba sinistra mi doleva. I soldati circondarono i pochi rimasti, ovvero me, zoppicante e con i pantaloni intrisi di sangue, una ragazza di nome Soave, che nel lanciarsi giù dal camion si era slogata un piede, lo sciancato Emaldi (“Paliné”) ed un operaio dell’Oleificio Minardi, tale Edmondo Magnani. Un ufficiale ci mise contro un muro e fece schierare un picchetto di soldati armati. Innanzi a quei soldati schierati, tuttavia, nonostante pensassimo che sarebbe stata la fine, non avemmo un attimo di smarrimento; anzi, “Paliné” si sbottonò la camicia e gridò più volte a gran voce “sparate pure, moriremo per la libertà!”. Trascorsero pochi minuti che sembrarono eterni, poi l’ufficiale, preso finalmente atto che io e la ragazza eravamo feriti, sciolse il picchetto e diede ordine di trasportarci al più vicino ospedale, mentre gli altri furono subito rilasciati. Il caso volle che nello sbandamento dei manifestanti a seguito della sparatoria, fossero scomparse diverse bandiere tricolori alle quali mani “ignote” avevano strappato lo scudo sabaudo. Se i militari avessero scoperto l’oltraggio alla bandiera, la situazione avrebbe potuto volgere in tragedia, non solo per noi che eravamo stati messi al muro, ma per tutti i dimostranti. All’ospedale incrociai nel cortile del pronto soccorso alcune automobili che recevano i feriti provenienti da Massa Lombarda, vittime dei colpi del fascista Dal Pozzo. Dopo essere stato medicato, rimasi insieme a Soave in attesa che qualcuno dei nostri parenti o amici venisse a prelevarci. Poco dopo mezzogiorno giunse all’ospedale il cappellano della mia parrocchia, Don Guidani, col quale, nonostante le mie convinzioni politiche, avevo stretto rapporti di amicizia. Fu lui, con la sua bicicletta, a riportarmi a casa.

Contemporaneamente alle drammatiche vicende di Via del Risorgimento, una marea festante aveva invaso Piazza Baracca. Dal balcone di Palazzo Comi, stipato di esponenti dell’antifascismo, parlarono alla folla l’avvocato Vito Baroncini, repubblicano, Sante (“Tino”) Baracca ed altri. I militari presenti non reagirono, fecero opera di persuasione e di concordia nei confronti degli ufficiali e della truppa. Quanto a me, una volta rientrato a casa, ricevetti una gradita e significativa visita da parte di Anacleto Benedetti (“Caplé”), amico di famiglia, valente antifascista conosciuto in tutto il circondario lughese. Venne a stringermi la mano e, prima di lasciarmi, mi consegnò cento lire. “Prendi queste cento lire, – mi disse – ti potranno essere utili”. Quella stretta di mano mi commosse: non solo esprimeva la solidarietà che caratterizzava i militanti antifascisti, ma, per me diciannovenne, costituì uno sprone a proseguire nella dura lotta per la libertà e la democrazia.

(Giannetto Gaudenzi, Le calde giornate di fine luglio 1943 a Lugo, Massa Lombarda, Conselice e Cotignola, Centro Stampa Comune di Lugo 2005)